TRA NAVIGAZIONE, SOVRANITÀ MARITTIMA, PASSAGGIO INNOCENTE, OPERAZIONI DI SOCCORSO E TRASPORTO DI SCHIAVI
Da oltre un quinquennio si assiste al ricatto morale del “salvataggio delle vite umane in mare”, dell’invocazione di un imprecisato “diritto del mare” per giustificare, sulla scia di un prospettato stato di necessità il trasporto sistematico di naufraghi dalle sponde africane a quelle europee, italiane in primis, del Mediterraneo.
Due argomenti sono principalmente spesi dalle organizzazioni non governative a giustificazione delle rispettive operazioni di soccorso nel Mar Mediterraneo: la necessità di salvare le persone che fuggono dalla disperazione nel paese di origine, nonché quella di soccorrere vite umane in mare.
Entrambi gli argomenti, per quanto suggestivi in astratto, non sono in grado di giustificare un’attività di trasporto per mare del tutto illecita e qualificata come criminale dall’ordinamento penale internazionale.
La legittimità o meno dell’attività “di soccorso” prestata a cavallo delle coste libiche e quelle italiane deve essere infatti verificata mediante cinque passaggi rigorosamente connessi tra loro.
1.- In primo luogo viene in questione l’attività di navigazione in sé da parte delle imbarcazioni in generale. A prescindere da impieghi speciali, tra cui in primo luogo quello militare, il naviglio civile è considerato come mezzo di trasporto per mare: ciò sta a significare che ogni imbarcazione civile è intrinsecamente destinata al trasporto di beni o persone, anche quando ciò avvenga per finalità specifiche, quali la pesca ed il diporto. È quanto espressamente dispone l’art. 136 del codice della navigazione nella definizione di navi e galleggianti e quanto non espressamente disciplinato ma logicamente presupposto dalla Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare (United Nations Convention on the Law at Sea) a livello internazionale.
L’argomentazione giuridica procede sempre per via sillogistica, applicando ad una premessa minore (il fatto concreto) quanto disposto dalla premessa maggiore (la disposizione normativa applicabile), per consentire la verifica della legittimità o meno di una fattispecie concreta e l’eventuale applicazione di una sanzione.
Sotto questo primo profilo le organizzazioni non governative che incrociano i nostri mari devono innanzitutto chiarire che cosa trasportano: persone o cose, e con quale finalità (commerciale o speciale).
2.- Seconda questione: la navigazione, al pari del trasporto terrestre, non avviene in piena libertà da parte del privato, ma sotto il controllo dello Stato di appartenenza. Anzi: il trasporto marittimo (come quello aereo), proprio in quanto intrinsecamente svolto in mancanza di collegamento con il territorio dello Stato, richiede che le imbarcazioni siano munite di una bandiera rilasciate dallo Stato di appartenenza. È quanto disposto dall’art. 155 cod. nav. nell’ordinamento interno e dall’art. 92 della Convenzione di Montego Bay. Quest’ultima, nella disposizione immediatamente precedente, prescrive che sussista un legame effettivo (genuine link) tra l’imbarcazione e lo Stato di bandiera.
Con il rilascio della bandiera, lo Stato si assume il potere non solo di regolamentazione, ma anche di controllo e giurisdizione, sull’imbarcazione.
Qui si apre un’altra questione: i rapporti internazionali tra Stato rivierasco (l’Italia) e gli Stati di bandiera per quanto concerne la pretesa all’esercizio di un controllo effettivo sulla liceità della navigazione delle imbarcazioni delle organizzazioni non governative che incrociano nei nostri mari. A fronte di un banale quesito in ordine alla destinazione economica delle imbarcazioni battenti le rispettive bandiere (Germania e Paesi Bassi risultano le nazioni maggiormente esposte sotto questo profilo), gli Stati di immatricolazione cosa possono in concreto rispondere? Quanto accade a bordo delle imbarcazioni concerne esclusivamente la sovranità e giurisdizione di queste nazioni (ivi compreso il riconoscimento della protezione umanitaria). Ma quando tali imbarcazioni entrano nelle acque territoriali della Repubblica Italiana si pone un vero e proprio problema di sovranità territoriale e di rispetto di quest’ultima nel momento in cui si chiede l’approdo.
3.- La sovranità nel diritto internazionale del mare rileva infatti non solo ai fini della nazionalità delle imbarcazioni, ma anche per quanto concerne il controllo delle acque territoriali, ovvero le dodici miglia nautiche a partire dalla costa verso il mare aperto.
A riguardo l’art. 17 della Convenzione riconosce alle imbarcazioni di ogni Stato il diritto al cosiddetto passaggio innocente nelle acque territoriali di ogni altro Stato. Si tratta di un diritto limitato nel tempo alle strette necessità della sicurezza della navigazione dell’imbarcazione e solo nei limiti di tale condizione può essere legittimamente opposto al rifiuto di autorizzazione all’ingresso nelle acque territoriali da parte dello Stato sovrano.
Il successivo art. 19 in via definitoria esclude il carattere di passaggio innocente alla navigazione che si manifesti pregiudizievole alla pace, al buon ordine ed alla sicurezza dello Stato costiero. Considerato il numero (diverse centinaia di migliaia in un quinquennio), nonché la condizione giuridica (mancanza di documenti identificativi) delle persone soccorse o – meglio – trasportate dalle imbarcazioni delle organizzazioni non governative, vi è ben poco da argomentare in termini di minaccia quanto meno del buon ordine e della sicurezza dello Stato costiero. Tensioni economiche, con riferimento alla perdita di risorse del welfare oltreché a spesa pubblica che ben si sarebbe potuta disporre a favore degli investimenti, anziché a spesa corrente parassitaria, così come tensioni terroristiche (l’esempio di Francia e Belgio con l’immigrazione di seconda se non terza generazione sono state sotto gli occhi di tutti negli ultimi anni) ben possono in un futuro nemmeno troppo remoto scatenare addirittura minacce non solo all’ordine, ma anche alla pace sociale sul territorio della Repubblica.
Ai sensi dell’art. 25 lo Stato costiero ha il diritto di preservare le proprie acque territoriali, al pari del proprio territorio, da ingressi illegittimi mediante l’adozione di tutte le misure necessarie ovvero, secondo il lessico giuridico internazionale, anche mediante l’uso della forza.
4.- Le organizzazioni internazionali invocano, a giustificazione della rispettiva azione, l’art. 98 della Convenzione, che disciplina l’obbligo di provvedere al soccorso dei naufraghi. Qui occorre provvedere tuttavia ad una distinzione: il soccorso in mare costituisce responsabilità dello Stato sovrano costiero, che vi provvede generalmente con naviglio armato, anche per ragioni di sicurezza dello stesso personale di soccorso.
Questa è una pubblica funzione, quale la difesa del territorio ed anche delle acque, la giurisdizione, il rilascio di documenti identificativi o passaporti. Nessuno si sogna (o non ancora, quanto meno…) che delle organizzazioni non governative possano sostituirsi all’Ordinamento giudiziario nello svolgimento di attività giurisdizionale, od all’Amministrazione dell’interno nel rilascio di passaporti o documenti identificativi.
Considerato tuttavia che il naufragio costituisce una condizione di specifico pericolo in un contesto difficilmente raggiungibile (il mare aperto), l’ordinamento marittimo internazionale riconosce un vero e proprio obbligo dei comandanti di provvedere al soccorso dei naufraghi (attribuendo loro eccezionalmente una pubblica funzione), purché tale attività non ponga in pericolo la navigazione della loro imbarcazione e del rispettivo equipaggio.
Questi comandanti, vale ricordarlo, sono necessariamente i comandanti di quelle unità di trasporto che stanno svolgendo una regolare attività di trasporto seguendo una determinata rotta. Nel caso di specie le imbarcazioni delle organizzazioni non governative non provvedono al traporto di alcunché e non seguono alcuna rotta nello svolgimento di tale trasporto. Si è dimostrato, al contrario, che incrociano liberamente al largo delle coste della Libia in attesa di trasbordare i naufraghi dei natanti avviati in mare dagli scafisti.
La loro attività non si risolve pertanto in un semplice ed occasionale soccorso di naufraghi, casualmente incrociati in mare in corso di navigazione, ma in un vero e proprio trasporto che avviene a seguito di raccolta in mare aperto in luoghi di incontro a priori ben stabiliti. Se non vi fosse accordo con gli scafisti sui luoghi di raccolta, infatti, le vittime di naufragio sarebbero elevatissime, con percentuali di salvataggio che indurrebbero qualsiasi migrante a desistere da un’impresa così pericolosa (il numero delle vittime sarebbe infatti più che decuplicato rispetto al già tragico bilancio consolidatosi negli ultimi anni).
5.- In ultimo, con tutte le cose di cui si potrebbe espressamente vietare il trasporto (armi, stupefacenti, materiale fissile, scorie di ogni genere) l’art. 99, immediatamente successivo alla norma invocata dalle organizzazioni non governative, prevede il divieto di trasporto proprio di schiavi.
Ora: è ormai indiscusso, da parte di tutte le agenzie di stampa che se ne siano occupate, che il trasporto dei migranti dall’Africa sub-sahariana alle coste della Libia avviene in condizioni di privazione della libertà personale, sotto la minaccia armata, con lo sfruttamento della prostituzione e del lavoro servile, ricorrendo spregiudicatamente all’omicidio ed alla tortura per intimidire i passeggeri.
L’attività di trasporto effettuato dalle organizzazioni non governative, pertanto, non è semplice attività di trasporto di persone, ma trasporto di schiavi, che tramite le organizzazioni non governative lasciano la propria condizione di schiavitù per affidarsi alla sovranità dei Paesi europei, contando sul sostegno dei rispettivi sistemi di welfare.
Ma questo trasporto non è liberazione di persone, ma completamento della tratta, che senza il decisivo aiuto delle organizzazioni non governative non avrebbe ragione economica di sostentarsi, in quanto nessun migrante pagherebbe il denaro e le sofferenze subite lungo la tratta per arrivare semplicemente al limite delle acque territoriali libiche: la sfida la si accetta e la si affronta solo laddove si presenti la possibilità concreta di approdare sul suolo europeo.
Non solo: al di là dei gioiosi balli sul ponte delle imbarcazioni, deve verificarsi il luogo di destinazione definitiva delle persone trasportate. Rare, probabilmente inferiori al 15% dei casi, le ipotesi di effettiva integrazione sul territorio con un decoroso lavoro. Per i restanti casi, due le alternative possibili: lo sfruttamento nel lavoro agricolo in condizioni servili o l’arruolamento nella criminalità organizzata come manovalanza spendibile.
L’illiceità della condotta delle organizzazioni non governative non si limita pertanto all’agevolazione dell’immigrazione clandestina, ma si concreta in un vero e proprio concorso nella tratta di esseri umani con uguale disvalore e pericolosità sociale delle organizzazioni criminali insediate sul suolo africano.