PRODUZIONE, LAVORO, ORDINE PUBBLICO ED INCOLUMITÀ PUBBLICA IN TEMPI DI PANDEMIA

Seguendo i media in queste settimane di emergenza vivo con rammarico l’assenza nel nostro Ordinamento, per effetto di scellerate scelte politiche nelle scorse legislature, di un Governo autorevole che possa ricercare ed ottenere un consenso comune in Parlamento per affrontare una stagione di pianificazione e riordino istituzionale a fronte dei mutamenti imposti dalle esigenze di incolumità pubblica al mondo dell’economia.

In un assordante silenzio del Quirinale, che ha comunque notevolmente contribuito alla costituzione dell’attuale assetto di governo, del Ministero dell’Interno, che non chiarisce quali progetti abbia nel gestire la tratta di esseri umani e lo sfruttamento della schiavitù sul territorio nazionale, del Ministero della Difesa e di quello delle Infrastrutture e dei Trasporti, che hanno comunque la responsabilità della tutela dei confini nelle acque territoriali, nella zona contigua fino alle acque internazionali, mi resta da apprezzare l’operato del Ministro dell’Agricoltura, on.le Teresa Bellanova, non tanto per le soluzioni che sta proponendo quanto per aver sollevato il tema della regolarizzazione del lavoro agricolo sul territorio nazionale.

Civitas, l’associazione che abbiamo deciso di fondare o cui abbiamo deciso di aderire, istituzionalmente si è proposta di affrontare il problema della tratta degli esseri umani e della riduzione in schiavitù in termini esclusivamente:

– giuridici;

– politici per quelle sole scelte che si manifestano doverose ed obbligate anche per il Legislatore, sottraendogli ogni discrezionalità politica.

Appartengono alla nostra comunità non solo cittadini italiani, ma anche migranti stranieri che clandestinamente sono arrivati sul territorio italiano subendo sulla propria pelle l’esperienza della tratta in tutta la sua brutalità e ferocia.

L’isolamento avvenuto in questi giorni ha ulteriormente dimostrato, laddove lo si fosse ritenuto ancora necessario, il meccanismo causale del mercato e della deportazione di esseri umani.

Nei luoghi di partenza: mediante la disgregazione del tessuto sociale, la vendita di facili sogni di agiatezza e ricchezza, diffusi non solo dai media tradizionali (si pensi tra il resto agli sportivi di origine africana integrati nei paesi occidentali in condizioni economiche a volte faraoniche), ma anche dai cd. social networks, con cui sfortunatamente una gran parte di immigrati vende ai propri connazionali un’immagine di apparente successo volta ad incentivare nuovi esodi.

Nei paesi di transito: il migrante quanto meno in Niger ed in Libia si è dimostrato una fonte di introiti di gran lunga più remunerativa delle economie tradizionali che vi erano radicate. Cittadine agricole, che potevano integrare la propria economia con il turismo naturalistico od archeologico, sono ora centri di transito in cui tutta l’economia ruota intorno al concentramento ed alla deportazione di intere masse di sognatori disperati, con effetti di degrado non solo sull’etica individuale ed i costumi sociali, ma persino anche sull’ambiente naturale.

Nel paese di arrivo: l’agricoltura nel Meridione d’Italia è ormai territorio di saccheggio non solo della criminalità mafiosa, ma anche della libera concorrenza imposta dalla grande distribuzione, nei confronti della quale le aziende agricole hanno ben poca capacità di contrattazione sui prezzi dei raccolti.

Non solo: anche nel contesto urbano si vedono gli effetti della nuova concorrenza su nuovi servizi di bassa manovalanza. Le strade milanesi sono state monopolio per diverse settimane di ciclisti di colore assoldati a condizioni contrattuali inaccettabili per la consegna di alimenti da asporto.

Il fenomeno migratorio, dunque, non è cagionato esclusivamente da una spinta dai paesi di origine (descritti da una stampa complice come afflitti da guerre di violenza paragonabile alle guerre mondiali), ma anche da una richiesta dai paesi di arrivo, con la partecipazione dei paesi di transito.

Ciò sta a significare, dunque, che all’interno dell’intera catena, l’azione del trafficante, per quanto più violenta e più prossima alla vittima, è probabilmente quella meno riprovevole, risultando – come sempre – ben più grave la condotta di chi consegue la maggior utilità economica dalla consumazione del reato, senza parteciparvi direttamente.

Ci troviamo ora, all’esito di una politica di inedita ed inaudita apertura delle frontiere, con una massa di pare 600.000 migranti irregolari sul territorio nazionale, che si vorrebbe indistintamente regolarizzare con una sanatoria legata all’esigenza della produzione ortofrutticola.

Il tema è interessante, ma richiede un minimo di riordino di idee.

*

1.- In primo luogo, al di là degli ulteriori interessi economico-sociali, l’attenzione deve essere diretta all’interruzione delle attuali rotte migratorie, che consentono l’esercizio della tratta di esseri umani e della riduzione in schiavitù su territorio africano, ove la violenza è ben più alta persino di quella esercitata dalle nostre organizzazioni criminali.

Ciò sta a significare che l’ingresso sul territorio italiano ed europeo non deve più avvenire attraverso l’attuale circuito. Ciò sta quindi a significare ulteriormente che deve essere definitivamente interrotta con i dovuti strumenti della forza di ordine pubblico e persino militare la raccolta di naufraghi imbarcati dalle organizzazioni criminali e dalle tribù libiche, con la complicità del personale militare e di polizia libico.

Le misure militari e di polizia della navigazione che la nostra Associazione ritiene legittime e necessarie non si riferiscono a qualsiasi forma di ingresso clandestino nel territorio della Repubblica, ma al mercato di schiavi: sono misure che concernono pertanto i natanti provenienti dal territorio libico ed attualmente raccolti dalle organizzazioni umanitarie che con il pretesto dello stato di necessità e del soccorso in mare stanno consentendo la prosecuzione della tratta.

Sul punto è evidente la debolezza dell’azione di governo, che abdica ad una gestione centrale ed unitaria del problema nella corretta sede (ovvero là, dove si può legittimamente esercitare l’iniziativa politica), per lasciarla alle più disparate iniziative di ogni singolo magistrato.

2.- La chiusura delle frontiere alla “merce” dei trafficanti non vuol dire categorica chiusura allo straniero, anzi: è compito di un governo organizzato ed efficiente interloquire, tramite un altrettanto efficiente decentramento locale, con il sistema produttivo e consentire l’immigrazione di forza lavoro curandosi di una gestione ordinaria dei flussi, funzione non più esercitata da decenni ormai, con la consueta scusa dell’emergenza e la ricca possibilità di attivare polemica politica ai fini della raccolta del consenso elettorale.

3.- Sul territorio nazionale è evidente la latitanza dell’Amministrazione dell’Interno a fronte del degrado delle condizioni del lavoro agricolo, soprattutto nelle campagne del Meridione. Le tendopoli devono essere chiuse ed i produttori agricoli devono essere costantemente vigilati con una finalità non repressiva, ma di tutela nei loro confronti di fronte alle pressioni non solo della criminalità organizzata, ma soprattutto del mercato della distribuzione.

Controlli di tracciabilità non solo del prodotto, ma della filiera produttiva, sono la reazione che si impone sulla distribuzione alimentare. Analogamente a quanto avvenuto per l’industrializzazione del nord e l’immigrazione dal sud nel corso del primo e del secondo dopoguerra, una politica di sostegno alla produzione agricola dovrebbe portare alla formazione di un vero e proprio piano casa (beninteso: a carico dei datori di lavoro, ma con il sostegno del Governo) per i lavoratori impegnati nelle campagne, ove il personale di polizia possa essere accolto non con sospetto, ma con fiducia da parte di chi svolga regolarmente il proprio lavoro nelle difficili condizioni del mercato agricolo, comunque soggetto al rischio ed alla ciclicità meteorologici a prescindere dal grado di sviluppo tecnologico dei mezzi di produzione.

4.- Le stazioni ed il pubblico suolo non sono luoghi di libero bivacco: la provenienza non costituisce causa di discriminazione – né in bene né in male – nell’osservanza delle norme di ordine pubblico. Sotto questo profilo risulta oltremodo farraginoso l’attuale sistema di gestione dei permessi temporanei in pendenza del procedimento di riconoscimento della protezione internazionale. Non ha il minimo senso prevedere il rilascio di documenti con validità limitata a soli sei mesi, intasando le Questure di attività d’ufficio, che sottraggono ingenti aliquote di personale al controllo del territorio.

5.- L’intero sistema dell’accoglienza nelle attuali condizioni risulta inefficace e contraddittorio.

È inefficace in primo luogo la magistratura, investita di una funzione che dovrebbe competere principalmente al Ministero dell’Interno, limitando il controllo giurisdizionale ad un solo numero ristretto di casi, in ipotesi di abuso da parte degli organi amministrativi.

L’attuale sistema, al contrario, ha trasformato le Commissioni territoriali in un inutile organo burocratico che si limita a chiedere al richiedente: “perché sei venuto?”, “perché hai paura di tornare al tuo paese?”, per pronunciarsi con infiniti provvedimenti con motivazioni copia-incolla in cui rientrano grandi analisi di geopolitica internazionale al pari di citazioni di organi di giurisdizione tanto interni che internazionale, senza però prendere posizione sulla concreta situazione del singolo richiedente.

Di qui la devoluzione alla giurisdizione di una funzione alla stessa non propria con strumenti in adatti (la cognizione processuale) con effetti gravemente distorsivi in termini sia di tempistica che di giustizia nel merito.

Il vero quesito, ad un richiedente asilo su cui comunque spetta alla Repubblica esercitare la responsabilità di protezione dal momento di arrivo sul proprio territorio, è uno solo: “cosa stai facendo da quando sei qui in Italia?”.

A scendere l’ultimo grande cratere, anche finanziario, è costituito dalla devoluzione dell’accoglienza alle cooperative private, che invocano valori di solidarietà nel perseguire interessi di lucro. Se di accoglienza per ragioni umanitarie bisogna parlare, ben venga: ma se ne occupi a questo punto l’Amministrazione dello Stato con le proprie strutture (le caserme dismesse potrebbero costituire un’interessante occasione anche di formazione lavorativa) e con proprio personale.

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La regolarizzazione del migrante clandestino è dunque un buon tema, Ministro Bellanova, ma va affrontato innanzitutto con la dovuta autorevolezza, ovvero spogliandosi di tutte le ipocrisie di semplicistiche retoriche dell’accoglienza (su cui non mi sembra peraltro che Lei si stia eccessivamente perdendo…), ma soprattutto ripulendo le Amministrazioni dell’ottusità dell’approccio burocratico (su cui vedo tuttora un mostruoso ritardo).

Il problema principale non è il mercato, che può trovare il modo di organizzarsi con strumenti leciti, non è l’immigrazione clandestina (ove il migrante deliberatamente sceglie di violare una frontiera preclusagli), ma la riduzione in schiavitù, cui il migrante clandestino volutamente si sottopone in carenza di ragionevoli e praticabili alternative, divenendo così da reo vittima di una realtà troppo complessa perché ne possa avere piena consapevolezza.

Regolarizzare va bene – è meritorio – ma il flusso deve essere con la massima fermezza interrotto e sostituito con un modello lecito e ragionevole di gestione delle frontiere, così come il territorio interno deve essere adeguatamente preparato e vigilato.



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