LA TRATTA TRA “ER BLOCCO NAVALE A LA VACCINARA” ED INSALATE DI (DIRITTO DEL) MARE

LA TRATTA TRA “ER BLOCCO NAVALE A LA VACCINARA” ED INSALATE DI (DIRITTO DEL) MARE

Le prime prove cui è stato sottoposto il governo Meloni in tema di immigrazione clandestina manifestano ancora una volta i limiti della demagogia e della sottovalutazione dello studio.

Dopo ripetute promesse di attuare un blocco navale nei confronti non si sa bene di chi (trafficanti, Stato della Libia nel suo complesso, fazione di Tripoli?), cui si contrappone la consueta invocazione del “diritto del mare”, si è finalmente giunti alla prima sfida tra organizzazioni non governative e Governo italiano.

La tesi originaria sostenuta dalla Presidente Meloni prevederebbe – salvo voler agire al di fuori di canoni di legittimità internazionale cristallizzati in norme consuetudinarie e convenzionali – l’esistenza di uno stato di guerra tra l’Italia e la Libia (salvo voler riconoscere a semplici associazioni criminali il titolo di “nemico” e sostenervi uno stato di belligeranza, con tutto quanto ne consegue sul lato attivo e passivo, tra cui la legittimazione a ricorrere al fuoco), la comunicazione a tutti gli Stati neutrali della costituzione di un blocco navale nei confronti dello Stato libico, l’esercizio di un blocco effettivo (sempre che la Marina Militare disponga di un numero adeguato di unità, che si possano alternare su almeno tre turni, ma preferibilmente su cinque) e l’esercizio della forza su ogni imbarcazione mercantile o militare che intrattenga traffico “di contrabbando bellico” con la Libia, ovvero che porti materiali di impiego bellico, a cominciare dai fuoristrada giapponesi e dai gommoni cinesi di cui si servono i trafficanti per inviare gli schiavi verso le nostre coste.

Tutto bello ed interessante: non resterebbe che attendere le prime reazioni cinesi o giapponesi (che non sono certamente gli unici interlocutori presenti sul territorio libico) all’affondamento di una loro unità mercantile che abbia tentato di forzare il blocco onorevolmente esercitato dalla Marina Militare Italiana in esecuzione degli ordini impartitile dal Governo dopo la dichiarazione di guerra nei confronti dello Stato di Libia o di chi per esso.

Altra strada alternativa: l’invocazione del “diritto del mare”, che così come propagandato dall’informazione giornalistica richiama più una pietanza estiva destinata ad antipasto che una precisa categoria giuridica, che peraltro il buon giornalista generico medio preparatosi su Wikipedia declasserebbe a cavillo giuridico. Il nostro buon giornalista wikipediatico, peraltro, se ha scarsa confidenza con lo studio e con “il libro”, di gran lunga maggiore ne gode in materia di decontestualizzazione della notizia: ogni volta si focalizza il primo piano sul bambino morto spiaggiato, cui si dedica peraltro il nome di una nave delle ONG, e si dimenticano le centinaia di migliaia di persone che ora, nel momento in cui sto scrivendo queste brevi note, stanno ancora attraversando il Sael, il deserto e stanno subendo la riduzione in schiavitù e la detenzione sul territorio libico.

Orbene, se il nostro stimato Presidente del Consiglio ed i contraddittori politici (attuale opposizione di recente esperienza governativa in testa) e mediatici avesse aperto il “libro” prima di candidarsi o di prendere parola pubblicamente – ed il libro cui mi riferisco non è quello della giungla, ma quello “del diritto” e quello “del mare”: pregevoli pubblicazioni (Edizioni Prima il testo e poi la testa) in cui tutta la realtà giuridica e tutta l’esperienza della navigazione vissute dall’umanità in trenta secoli di storia sono riassunte in una dozzina di pagine ciascuna – ci troveremmo ad affrontare un confronto politico ed un’azione esecutiva di carattere anche militare prescindendo da un punto di partenza del tutto fallace e decettivo: quello di “porto sicuro”, che non è previsto in alcuna norma internazionale.

Saremmo ben consapevoli che l’attributo di sicurezza è convenzionalmente riferito al concetto di “luogo” e non di “porto”, perché tutti i porti sono “luoghi sicuri” per definizione. Saremmo altrettanto consapevoli che la sicurezza, cui si riferiscono le linee guida per il salvataggio in mare delle persone, concerne esclusivamente lo stato delle acque e le condizioni di navigazione, non certo la tutela dei diritti umani.

Saremmo altrettanto consapevoli che altri “porti sicuri” negli stessi termini sfruttati dalle ONG per giustificare il proprio operato ben più vicini di quelli italiani si trovano in altri paesi confinanti con la Libia, in cui tanto sono sicuri i trattamenti di tutela dei diritti fondamentali da consentire che sul loro territorio si svolga ingente attività di accoglienza turistica.

Sempre leggendo in combinazione queste splendide pubblicazioni sul diritto e sul mare ci renderemmo conto di come l’attività di soccorso in mare sia una prerogativa del naviglio governativo e non di quello privato e di come quest’ultimo sia – pure obbligatoriamente – ingaggiato solo nelle ipotesi in cui occasionalmente, lungo la propria rotta di trasporto (quale rotta e trasporto di quali merci per le ONG?), ritrovino naufraghi ed imbarcazioni in condizioni di pericolo.

Daremmo per scontato che le rotte delle navi delle ONG si riducono a collegare l’Italia e la Libia e che il loro carico sarebbe semplicemente costituito da carne umana.

Partendo da questo dato come base scontata di dibattito (che invece non abbiamo nemmeno raggiunto come destinazione), di cosa dovremmo dunque discutere?

Di esercizio della forza nei confronti delle navi che esercitano passaggi “non inoffensivi” (secondo la terminologia adottata dalle convenzioni internazionali, Montego Bay in testa), e di vigilanza disciplinare sugli organi di giustizia che si appoggiano acriticamente sul pensiero unico affermando la doverosità dell’attività di soccorso (rectius: trasporto) svolto dalle ONG nel Mar Mediterraneo.

Ed ancora si dovrebbe aprire il tema, costantemente dimenticato, del rilascio dei permessi di lavoro nei paesi di partenza tramite formali strumenti amministrativi, anziché sanando a posteriori gli effetti di un grave crimine internazionale proficuamente svolto da oltre un decennio ormai.

Una ferma e coerente attività di studio del “libro” prima di prendere la parola ed assumere le decisioni, e la conseguente azione politica, amministrativa e giudiziaria secondo canoni giuridici (che non sono semplici cavilli) cristallizzati in poche e ben precise norme interne ed internazionali porrebbe agevolmente e rapidamente termine al fenomeno della tratta, quanto meno sul territorio italiano, restituendo giustizia alle vittime della tratta e credibilità internazionale alla nostra Nazione.



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